mercoledì 30 marzo 2011

Moderno martire sportivo

C’è un uomo 46enne, che vive alla periferia di Liegi, in Belgio. Ha una moglie e due figli, ma viene praticamente costretto a vivere lontano da loro, per paura di perdere il diritto al sussidio pubblico. Non ha un lavoro, nemmeno saltuario, ed è stato dimenticato da tutti: è uscito miracolosamente dal tunnel dell’alcol e ora tira avanti solamente grazie appunto a un sussidio statale di meno di 700 Euro al mese.
            Eppure quest’uomo per lo sport europeo, e per il calcio in particolare, è stato probabilmente il giocatore più importante degli ultimi vent’anni: forse più di Nedved, Stankovic o Seedorf (giusto per fare degli esempi), se non altro perché molto probabilmente questi ultimi tre, se non fosse stato per lui, non sarebbero mai venuti a giocare in Italia.
            Sto parlando di Jean-Marc Bosman, proprio quello della famosa Sentenza Bosman, che il 15 dicembre 1995 sancì la possibilità per i calciatori professionisti aventi cittadinanza dell'Unione Europea di trasferirsi gratuitamente a un altro club alla scadenza del contratto con l'attuale squadra – il vero punto di svolta del cambio del potere contrattuale tra società e calciatori. Fateci caso: da quel periodo in avanti gli ingaggi dei calciatori si sono moltiplicati.
            Dopo tanti anni di silenzio, Bosman ha deciso di vuotare il sacco e ha rilasciato un’intervista al quotidiano UK The Sun. Alcuni virgolettati riportati dai maggiori siti italiani di informazione sportiva sono molto duri e critici nei confronti dell’ambiente. L’ex calciatore belga avrebbe infatti dichiarato: “È stata molto dura perché sono l’unico ad aver pagato. Con quello che ho incassato da quella sentenza pagherei un solo giorno dello stipendio di Wayne Rooney. Tutti i soldi sono stati mangiati dagli avvocati e dalle spese processuali”.
            La parte più brutta delle sue dichiarazioni, quella che si riferisce all’escalation di avvenimenti che fa di Bosman una sorta di martire moderno dello sport, sotto un certo punto di vista recita così: “Sono finito in depressione e ho cominciato a bere. Stavo sempre in casa e bevevo di tutto, birra o vino […] Voglio solo che mi sia riconosciuto il merito di ciò che ho fatto: la gente deve sapere che esiste una legge Bosman, ma esiste anche un ragazzo che per quella legge è diventato un alcolizzato”.
            Persino l’idea della partita d’addio è tramontata e Bosman ha dovuto accontentarsi di un match contro il Lille, davanti a meno di duemila anime.

            Gonfio, grasso, pelato e triste, Jean-Marc Bosman sembra un’altra persona rispetto a quella che ha battagliato e vinto in tribunale per i propri (e dei colleghi) diritti professionali.
L’odissea di Bosman inizia nel 1988 quando il belga, dopo aver giocato per anni nello Standard Liegi, la sua squadra del cuore, passa all’RFC Liegi. Alla fine del contratto, però, nel 1990, la società si rifiutò di rinnovargli la fiducia e Bosman si ritrovò senza un lavoro. Provò quindi ad offrirsi ad alcune squadre francesi, tra cui il Dunkerque: sembra impensabile ora se si considera la situazione degli svincolati, ma l’RFC Liegi gli rifiutò il trasferimento. Eh sì, allora si poteva: non ti rinnovavano il contratto (ergo, non prendevi soldi), ma potevano impedirti di passare ad un’altra squadra! Bosman decise di portare il caso in tribunale, giocando nel frattempo nelle serie minori (dilettantistiche) francesi e addirittura sull’isola di Reunion, nell’Oceano Indiano, pur di sbarcare il lunario.
            Quando tornò in patria aveva ormai addosso l’etichetta di “giocatore a rischio”: trovò, sì, un ingaggio, con lo Charleroi, ma la paga era inferiore al minimo sindacale, appena 650 sterline al mese. Due anni dopo lo Charleroi decise addirittura di non pagarlo più! Lui resistette a tutta prima, giocando per il divertimento, ma, come si sa, il divertimento non paga le bollette, e Bosman dovette ritornare a Liegi.
            A casa fu pure costretto all’umiliazione di trasformare il garage di casa dei suoi genitori in un monolocale, dove visse per addirittura due anni. Per tutta la durata di questi due anni, il suo avvocato e procuratore lo propose a tutti i club belgi, ricevendo sempre un NO come risposta. L’etichetta di “scomodo” che si era guadagnato per la sua battaglia in tribunale gli aveva segnato irrimediabilmente la carriera.
            Da lì poi la storica vittoria in tribunale del ’95 e la conseguente caduta nel tunnel della depressione e dell’alcolismo, due avvenimenti strettamente collegati: La pressione attorno al mio caso è stata enorme. La Comunità Europea non voleva accusare il sistema, il mio avvocato sapeva che mi avrebbero fatto sputare sangue e mi disse che potevo fermarmi quando volevo, ma era una faccenda importante e sono andato avanti. In genere, quando vinci in tribunale ti senti libero, ma la stampa belga mi si è scatenata contro: sono finito in depressione e ho cominciato a bere sempre di più”.
            Ricoverato in ospedale nel 1997, sull’orlo del precipizio, Bosman ha avuto la forza di aggrapparsi alla vita e chiede ora un po’ di riconoscimento: “La mia vittoria nel processo Bosman è stata enorme, ma la vittoria più grande è stata quella contro l’alcool. Dovrei essere il giocatore più famoso del Belgio, ho il mio posto nella storia e ho combattuto a lungo per conquistarlo, ma nessuno mi conosce. Non voglio aver fatto tutto questo per niente. Sono felice che ora i miei colleghi guadagnino un sacco di soldi, non sono geloso di questo e ho dato la mia carriera affinchè non fossero più trattati come degli schiavi. Voglio solo che il merito mi sia riconosciuto e che la gente sappia che come esiste una legge Bosman esiste anche un ragazzo che per quella legge ha dato tutto e che per questo è diventato un alcolizzato”.

Nessun commento:

Posta un commento

Lascia il tuo commento qui